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Premio IoRacconto anno 4*


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Narrativa Senior

Autori > IoRacconto3 2010 > Opere dei Premiati

ELENCO OPERE DEI PREMIATI IORACCONTO3 EDIZIONE 2010
TUTTA LA NARRATIVA SENIOR



NARRATIVA SENIOR

Vita contemporanea

1 Luigi Cristiano

UN NEFASTO GIORNO

Luigi Cristiano

Oreste Scognamiglio nacque il 29 febbraio 1952. Sotto un cavolo. O almeno è quello che gli dissero. Ripesandoci ora, forse gli avevano mentito.
Nonostante la tenera età, non passò molto prima che il piccolo si accorgesse di deficitare di qualcosa. Secondo la nonna era la santità, dato che lo riteneva indemoniato. Secondo il calendario, era il giorno di nascita. E mentre i suoi genitori vedevano scorrere in fretta gli anni, lui attendeva, ansioso, che l'almanacco riportasse il 29 febbraio. Ma questi arrivò solo nel 1956.
In prima elementare, il povero Oreste cominciò ad essere escluso dai compagni: il metro di misura dell'amicizia era l'invito alla festa di compleanno, ma avendo solo un genetliaco ogni quattro anni, in breve tempo si ritrovò solo. Ma la solitudine lo aiutò a soffrire di meno in seguito. Nel '58, infatti, la madre fuggì col ciabattino. Erano tempi duri, e l'unico modo per compiere una fuga d'amore era avere piedi forti e scarpe buone. In alternativa, un calzolaio.
Non passò neanche un anno prima che suo padre riacciuffasse l'adultera. Ma nel frattempo era stato aperto il cantiere del Monte Bianco, e i soldi, ai contadini, facevano sempre comodo. Così Anselmo partì per il nord. La casa alla madre, la moglie in galera, e il figlio in collegio.
Il 29 febbraio 1960, Oreste avrebbe dovuto compiere otto anni, quando giunse ad una sconcertante verità: questo era il suo secondo compleanno. Nonostante fosse nato nel '52, quindi, era solo un bambino di due anni. Un bambino piuttosto cresciuto.
In molti cercarono di spiegargli la caducità del ragionamento, ma nessuno riuscì a smuoverlo dalle sue convinzioni. Il collegio era gestito da preti, e la disciplina era ferrea. Tanto rigida che sconvolgere l'ordine cronologico comprendeva punizioni severissime: "Se non capisci di avere otto anni, resterai nella tua stanza. Fino al prossimo compleanno, se necessario!". Il giovane Oreste vi rifletté un po', ma quando
rispose che non sarebbe rimasto in stanza fino al '64, segnò indelebilmente la propria vita.
Anche se libero dall'isolamento, il 1964 giunse mentre Oreste viveva ancora nel collegio. Compiuto il suo terzo anno, passò quasi tutto il mese di marzo a pane e acqua, come punizione per aver tolto nove candeline dalla sua torta di compleanno.
Giunse il 1968, con i suoi moti e le sue rivoluzioni. I padri del convento erano molto attenti a non far trapelare notizie scomode, ma la voce della primavera di Praga arrivò anche alle attente orecchie dell'ormai quattrenne Oreste che, colto da un sentimento di libertà, fuggì dal convento per raggiungere i manifestanti. Partì a piedi, solo con un mantello, due mele e un morso di pane, ma il '69 lo colse quando non era neanche a Perugia.
Visse per strada per qualche anno. Come tetto le stelle e come pareti lo sconfinato cielo. Casa sua ora era il mondo. Ma cosa poteva fare un ragazzo di neanche cinque anni, in giro per il mondo? Cercò lavoro nell'unico campo in cui era bravo. Si recò a scuola e chiese di poter insegnare matematica. Il suo teorema sull'età lo rendeva un luminare, e nessuno avrebbe potuto rifiutargli un posto. Passò i successivi dieci anni lavorando come bracciante.
Quando compì sette anni, decise che la scuola di paese dove aveva cercato impiego era troppo provinciale per cogliere la sua grandezza: se avesse voluto aver successo, si sarebbe dovuto recare all'università. Spese tutti i suoi risparmi per raggiungere, in treno, l'università più vicina. Si spacciò per uno studioso di grande esperienza, incompreso dai suoi colleghi, e riuscì a farsi ricevere dal rettore in persona con tutti i professori. Anziché riscuotere applausi, però, fu sollevato e portato via. Dapprima pensò di essere stato innalzato in trionfo, poi vide l'ambulanza.
Negli anni ottanta, la medicina aveva rigide teorie sul funzionamento del cervello, e il povero Oreste fu subito dichiarato pazzo e internato. Ma questo non lo scoraggiò. Anzi,
colse l'occasione per approfondire la conoscenza di teorie tanto geniali quanto bistrattate, propostegli dai molti colleghi scienziati che si trovò accanto. Era così soddisfatto che, quando gli dissero che poteva uscire, rispose che sarebbe rimasto volentieri ancora qualche anno. Anzi, chiese di far internare Paul Erd?s.
Rimase in manicomio fino a che non furono obbligati a mandarlo fuori. Quell'anno festeggiò il suo decimo compleanno. Ma nonostante la sua lunga permanenza in clinica, Oreste continuò a mantenere contatti col mondo esterno. In particolare con la Svezia, dato che puntava al Nobel. Non ebbe mai risposta.
Così, una volta uscito, decise che avrebbe studiato la lingua scandinava per farsi comprendere ma, prima che potesse completare il pensiero, proprio fuori dal cancello, fu investito da un camion: avendo sbagliato a controllare i giorni, l'autista era in ritardo sulle consegne ed aveva accelerato il passo, non riuscendo a frenare in tempo alla vista dell'ignaro Oreste.
Sulla sua lapide, oggi, campeggia un ironico, seppur triste, epitaffio: Qui giace Oreste Scognamiglio, morto a soli dieci anni per colpa del calendario
.



2 Monica Tantardini

RACCONTO IO
(Monica Tantardini)


1976
Non pensavo che nascere fosse così faticoso, stavo tanto bene al calduccio nella pancia della mia mamma, ma finalmente dopo tutto quel buio vedo il mondo. Francamente me lo immaginavo un po' diverso, più colorato, più luminoso, che freddo che fa! Una ragazza giovane con gli occhi tristi mi mette addosso una coperta con un cattivo odore, sono tutto sporco e appiccicoso ho fame, ma nessuno mi dà niente. Vedo arrivare ancora quella ragazza, ho capito, è la mia mamma! Che bello mi prende in braccio, com' è bella la mia mamma! Cosa succede? dove mi porta? Usciamo di casa e sento ancora più freddo, si mette a correre, forse fa così per farmi giocare, è divertente, che ridere. Tutt'ad un tratto si ferma e mi lascia su una panchina e poi corre via, non conosco ancora bene questo gioco, ma scommetto che quando sarò un po' più grande ci divertiremo un sacco io e lei. Mamma, mamma dove sei andata, adesso ho tanto freddo, non ho più voglia di giocare, vieni a prendermi, ho fame mamma dove sei? Mi metto a urlare per tanto tempo e così forte che mi brucia la gola, ho paura a stare qui tutto solo, finalmente vedo qualcuno arrivare, eccola, forse sta tornando, mi prende in braccio, mentre la guardo mi accorgo che non è lei, una donna mi infila sotto la sua giacca sento il calore del suo corpo e quel suo buon profumo, anche lei si mette a correre forse il gioco non è ancora finito, detto fra noi questo gioco non mi piace tanto. Mi porta in una grande casa e tante persone vestite tutte uguali con dei camici bianchi mi portano da una parte all'altra, mi lavano, mi visitano, mi bucano le braccia e finalmente mi danno anche qualcosa da mangiare, mi mettono poi in una scatola di vetro, adesso non ho più freddo però mi sento tanto solo, vorrei che tornasse la mia mamma a prendermi in braccio.
Sono passati alcuni giorni e ho sentito da quelle persone che si chiamano dottori che diventerò un ometto forte e sano, oggi ho rivisto quella signora che mi ha portato qui, appena riesco a parlare le chiedo se ha visto la mia mamma, anche se quando viene a trovarmi mi fa divertire tanto, mi coccola e mi consola quando ho il mal di pancia, ieri mi ha regalato una bella tutina azzurra, dimenticavo, adesso ho anche un nome mi ha chiamato Roberto.
Oggi compio un mese e in ospedale mi hanno fatto una grande festa, Sonia, così si chiama la signora che mi ha trovato nel parco, mi porta a casa sua, mi piace tanto stare con lei, quasi quasi la chiamo mamma, dato che la mia non l'ho più vista.
2009.
Sono passati trent'anni da quel giorno e come allora mi trovo in ospedale, al mio fianco c'è ancora Sonia, mia mamma, mi guarda e mi sorride, capisce il mio stato d'animo, sono agitatissimo, ma mi basta un suo sguardo per farmi tranquillizzare. Sto aspettando la cosa più bella del mondo, mia moglie è da più di due ore in sala operatoria per dare alla luce la nostra prima figlia, proprio in questa occasione non posso fare a meno di ripensare alla donna che mi ha partorito. Non so perché mi abbia abbandonato ne l'ho mai più rivista ma con gli anni ho imparato a non giudicarla, a volte la vita ci mette alle strette, si fanno delle scelte che magari non vorremmo prendere per poi pentirsene per tutta la vita, forse così è stato anche per lei.
Sembrerà strano, non solo ho perdonato quella donna, ma mi sento persino di ringraziarla per due cose soprattutto, la prima per avermi donato la vita, la seconda, e questo lo devo per di più alla fortuna è di aver trovato una famiglia che mi ha amato e mi ha dato tutto quello che avevo bisogno forse anche di più. Mentre sono immerso nei miei pensieri vedo arrivare un'infermiera, tiene una copertina rosa fra le braccia, mi consegna quel fagottino, mentre la guardo sento scendere una lacrima che mi bagna la guancia "facciamo un gioco" le sussurro in un orecchio "corriamo dalla mamma!".




3 Gianluca Pirozzi - ex aequo

Da uno a trenta

(Gianluca Pirozzi)


Trenta righe sono poche, ma forse son pure troppe per raccontare come è andata a finire con l'Agata! Allora, non ne spreco neanche una, e racconto subito che, stamattina, lei, l'Agata, si alza, fa finta di mettere a posto quelle due cose che ha in giro così da dare un senso a quel suo dannato bisogno di ordine, e mi dice subito, senza neanche accennare ad un buongiorno, "Ezio, io vado, tu ricordati che oggi alle tre devi accompagnare il Carletto da mia sorella, perché il Guido ha promesso di portare i figlioli al cinema, all'Olimpia, danno i quattro cavalieri del vento e … noi…noi, beh insomma è inutile che ti dica che noi non possiamo permetterci il cinema, perciò meglio che ce lo porti il Guido che almeno può!" m'ha detto con aria di sfida. Ho provato a dirle che proprio non riuscivo accompagnare il bambino da sua sorella, perché eran già un paio di giorni ch'avevo promesso al Gianni di passare da lui alle cinque per riparargli lo scaldabagno. Allora l'Agata m'aggredito con il suo primo "Ma sei scemo?!". È stato in quel momento che ho capito che la cosa non poteva più andare avanti così e ho pensato: adesso basta, le do sette pugni, lì dritto sul muso, così la chiude quella boccaccia e la smette per sempre di dirmi che sono scemo e che sono otto anni che non trovo lavoro. Non è passato neanche un secondo, lei ha infatti aggiunto: "Ezio ma lo sai che a maggio fanno nove anni che non hai più un lavoro!". "Agata," ho provato a dirle, cercando di restare calmo, "sono otto Agata e tu sai benissimo che io non ho mai smesso di darmi da fare perché ogni giorno mi arrabatto per trovare dieci, dico almeno dieci fottuti euro, da darti alla sera, quando rientri!". Come se non avessi parlato, lei ha cominciato a gridare ancora più forte: "E tu credi che siano sufficienti? Sono anni che te stai a ciondolare dalla mattina alla sera, neanche fossi una barca attaccata al molo, mentre io tutte le mattine, anche la domenica, undici piani, uno di fila all'altro, devo pulire prima, ammazzandomi prima che si facciano le dodici per correre subito, senza neanche il tempo di un caffè, una sigaretta, ad acchiappare il tredici per attraversare tutta 'sta città, da un capolinea all'altro, per andare a pulire il culo a quella vecchia, che mi da quattordici euro ogni tre ore!". "Per la verità, te ne da quindici di euro!" le ho detto come se questo potesse cambiare la mia condizione. L'Agata per un po' non ha detto più nulla però, dopo poco, l'ho vista andare dal bagno all'ingresso un paio di volte e poi prendere la borsa e tornare indietro verso di me, con il cappotto strizzato in mano per la rabbia che le vedevo negli occhi. "Me ne da sedici per la precisione, ma questo che cavolo vuol dire? …Se non era per mia mamma che ci lasciava queste due stanze, da un bel po' eravamo sotto un ponte se era per te! …Ezio, ma tu, ti rendi conto che non ci arriviamo più alla fine del mese… siamo solo al diciassette e i soldi sono già finiti!". "Agata, non fare così!... Qualcosa accadrà…". Ho provato ad addolcirla con delle frasi così, ma lei nulla, anzi m'ha urlato ancora di più il suo rancore: "Sono stata una vera un'idiota a credere di potercela fare con uno come te… a lasciarmi mettere incinta a diciotto anni!. Guarda le mie mani Ezio! Guardale" mi ha intimato venendomi di nuovo incontro con le braccia dritte davanti al corpo. "Ti sembrano quelle di una che ha poco più di vent'anni?". Io allora non ho più detto nulla: sono ritornato in camera e ho aspettato che lei uscisse; mi sono seduto sul letto e ho guardato la sveglia sul comodino che era ferma da una settimana sulle ventuno e ventidue. Poi, visto che non l'avevo sentita uscire, mi sono rialzato e sono andato in cucina per vedere che stesse facendo. L'ho trovata in piedi, lei, l'Agata che guardava dentro il frigorifero. È stato allora che l'ho deciso: mi sono avvicinato, ho aperto il cassetto del tavolo mentre lei si voltava per capire se volessi farlo davvero. "Ma che fai, sei scemo?" m'ha ridetto mentre prendevo il coltello più grosso, io però sono stato rapido: una, due, tre, quattro,…fino a trenta coltellate le ho dato. A trenta, signor Commissario, mi sono fermato, mi sono messo addosso la tuta, ho preso il tram e sono venuto qui.


3 Bonalume Daniela - ex aequo

Il padre della sposa

di Daniela Bonalume


Luisa gli stralunò addosso gli occhioni neri attraverso lo specchio del bagno. Era china sul lavandino. Alzò la testa di fiamma.
La schiuma del dentifricio le colava agli angoli della bocca e lo spazzolino le rimase cementato sui denti, serrato tra le dita di sale. Una mina esplose nel petto, subito una piroetta all'indietro nella sua vita, con gli occhi della mente si rivide magra, grassa, ancora magra e poi grassa e magra: un bignè a lievitazione intermittente.
Fosco le stava appena dietro carezzandole i ricci rossi e rideva con aria beffarda. Lo vedeva riflesso, con la mascella squadrata e spostata in avanti. Tra un dente e l'altro gli passava un quarto d'ora: sembrava un caimano vicino alla preda.
Le aveva appena sibilato - Perché non vai anche tu in chiesa a vedere il padre della sposa?
Basita. Lei restò basita.
Chist'è sceemo, pensò in falsetto napoletano rinnegando le sue origini mantovane.
Fosco incalzò - guarda che se tu ti travestissi nessuno ti riconoscerebbe!
Luisa scoppiò in un schiumosa risata, spruzzi di dentifricio punteggiarono lo specchio, e anche schizzi di cuore liberavano l'adrenalina brutalmente accumulata.
- Ma tu verameente faai!!! - farfugliò tra le setole.
Fosco e Luisa rotolavano nella loro storia d'amore da oltre dieci anni, si erano violentemente innamorati contro ogni ragione possibile, sacrificando le loro vite precedenti. Non era un'unione tranquilla, e nemmeno serena, perché il dolore mietuto aveva lasciato nell'anima di entrambi una ruga, profonda, presente ad ogni risveglio.
Varcato il mezzo secolo di età, consumavano la loro convivenza come una torta rustica ripiena di scarola, sapida e compatta, alcune volte dolce come l'uva sultanina, ma altre volte troppo salata o amara. Si erano detti molto poco sull'amore, non serviva e non avrebbe cambiato nulla, coscienti entrambi della loro fortuna e della loro disgrazia.
Quella mattina Luisa uscì da casa un po' rallentata, la provocazione tuonava in testa.
Rimbalzava come una boccia da biliardo tra sponda lunga e sponda corta. Scandalosa.
Che sfrontatezza.
Però Fosco aveva ragione su una cosa, il padre della sposa l'avrebbe riconosciuta con grande emozione e piacere, di certo si sarebbe sentito meno solo tra quelle candele.
Mancava quasi un mese al sabato del matrimonio e, come ogni giorno la pubblicità frantuma le trame dei film in tivù, Fosco tentava di scardinare il bozzolo della sua compagna incuneandosi tra i fili setosi con qualche frase del tipo - hai pensato al colore della parrucca? - oppure - con una bandana e gli occhiali chi ti riconoscerebbe?!
L'amore mio è un vero stronzo pensava lei, e nelle tempie il ritmo accelerato del battito cardiaco sparava come i timpani nella fiaba di Prokof'ef. Contemporaneamente montava anche la curiosità di esserci, in quella navata, tra le panche e il profumo dei fiori mischiato all'odore dell'incenso e al brusio degli invitati e dei curiosi occasionali.
Cresceva la tentazione bécera di infilarsi tra gli apparecchiamenti di quella gente, sconosciuta o quasi, che dalle periferie si sarebbe spostata in città, con gioielli e cappelli, per partecipare al matrimonio della figlia del chiacchierato padre della sposa.
Sembrava che Fosco pregustasse una specie di rivincita e di vendetta intrecciate a una liana di sadismo che lo faceva dondolare inafferrabile sopra di lei. Mai diretto e sempre ambiguo nelle sue affermazioni, questa volta si poneva dritto come un palo nella laguna veneziana, incurante del variare delle maree e dei temporali emotivi.
Ogni giorno, ostinatamente, lasciava cadere gocce corrosive sul carapace di Luisa confidando nella metamorfosi della coriacea protezione in una mollanza spongiforme, nelle cui gallerie avrebbe iniettato il suo siero perverso e convincente.
Discutevano, eccome se discutevano. Anzi, litigavano.
Sommavano centoquindici anni in due e litigavano come due scugnizzi.
Lui la spediva virtualmente in chiesa, munita di fotocamera, travestita da turista giapponese o tutta annerita col sughero affumicato, in abiti variopinti e drappeggiati .
Lei rifiutava persino di ipotizzare la propria trasposizione molecolare in quell'area.
Le liti presero una piega paradossale creando una atmosfera sospesa, quasi metafisica, proprio come quando prevedi di spendere i soldi dell'ipotetica, e mai avvenuta, vincita stramilionaria e non coincide neppure la destinazione di un centesimo.
Ogni sera lui proponeva travestimenti possibili e impossibili, lei gli sventolava un pesce crudo qualsiasi sotto il naso impuzzolendo i suoi baffi. Oppure gli si parava davanti durante il telegiornale della cena, tagliuzandogli una cipolla sotto gli occhi.
Luisa non si spiegava questo accanimento da parte di Fosco, è cattivo pensava, ma non solo con me, e senza tregua o resa, a suon di scazzi quotidiani, giunse anche quel sabato.
Luisa si svegliò col profumo di caffè che le titillava le narici. Aprì gli occhi e vide dardi di sole tra le stecche della tapparella flagellare la stanza. Si alzò.
Si indagò allo specchio e spianò delicatamente la solita ruga.
Dopo la doccia, si infilò un copricostume fiorato sopra il bikini lilla già pronti dalla sera prima, aveva pianificato una bella giornata al mare, e si trascinò in cucina per la necessaria e quotidiana trasfusione di caffeina che, solo di sabato, rinforzava con una pachidermica porzione di fette biscottate e marmellata di ciliegie o arance amare. Finalmente prese contatto col mondo.
Realizzò che Fosco si era già rasato. Profumato come una mignotta il giorno del suo ingresso in società, si stava scegliendo accuratamente i calzini con la testa infilata nel cassetto del comodino.
Ingessata sulla gruccia che pendeva dalla chiave del guardaroba in camera da letto, una camicia bianca lo attendeva senza pietà. Si calò dentro i pantaloni scuri del vestito frescolana e completò il rito della vestizione infilandosi la giacca.
In ascensore le dita lunghe e magre di Luisa gli sistemarono la cravatta e i ciuffi di capelli sopra le orecchie, insieme salirono in auto e lei guidò fino alla meta.
Prima che lui scendesse al volo, Luisa prese la sua testa tra le mani e baciò la fronte lucida e pelata, lo salutò con l'occhiolino e chiuse lo sportello, girò tutta la piazza e se ne andò verso il mare, lasciandolo inamidato sul marciapiede mentre preparava il braccio per accogliere la sua bambina vestita di bianco.





Fantascienza, Giallo, Horror, Fantasy, Humor, Storie per Bambini

1 Sal Febbraio

Icaro

(Sal Febbraio)


Valentino Scassa era sempre stato un visionario. Fin da bambino, quando rimaneva ore ed ore col naso all'insù, a rimuginare sul volo degli uccelli.
Anche la sua sorella maggiore, Penelope, aveva incominciato molto presto a rimuginare sugli uccelli. Ma questa è un'altra storia.
Valentino avrà avuto si e no tredici anni, quando si presentò in cima al picco della Pannocchia, inguainato fino alle ascelle dai collant contenitivi da dodicimila denari di sua zia Geraldina. Lungo le braccia, un paio di ali costruite con le buste del supermarket Sgorby che suo nonno materno, spilorcio d'antologia, con la scusa di mettere a posto la spesa, faceva puntualmente sparire, stipandole in un nascondiglio segretomanontroppo, dopo averle accuratamente raccolte con quel raffinato sistema di piegatura diagonale che, molti lo ignorano, ma fu da lui brevettato. Ecco perché porta il suo nome: Spilorcio D'Antologia.
La sua bramosia da accumulo rasentava il delirio. - Ce l'ha una busta, nonnetto? - Gli avrebbe chiesto un giorno una cassiera Sgorby market, ciancicando chewing gum. E allora lui avrebbe fatto entrare a marcia indietro un tir carico dei suoi shopper riciclati e quelli gli avrebbero dovuto fare uno sconto ecologico astronomico, che forse facevano prima a intestargli il supermercato. E tutti avrebbero sussurrato "Spilorcio sì, che è un dritto da antologia!"

- Lo sai che cosa accadde a Icaro, l'uomo che voleva volare? - disse a Valentino il vecchio e saggio Braciola, sollevando il proprio bastone in maniera istrionicamente profetica.
In realtà Braciola non era ne vecchio ne saggio. Aveva appena venticinque anni quando, a causa di un errore meccanografico, era stato messo in pensione anzitempo dall'Inps. "All'anima dello scivolo!" avevano esclamato in coro, i suoi colleghi del reparto annegamento tonni. Però nessuno aveva fatto la spia per farlo tornare al lavoro: con quella storia di Icaro, Braciola aveva bell'e rotto i coglioni a tutta la fabbrica del tonno in scatola.
Per calarsi nel phisique du role, Braciola si era fatto crescere una lunga barba, che spruzzava di porporina metallizzata tutte le mattine ed aveva imparato a zoppicare, frequentando un corso serale per accattoni semaforici, finanziato dalla regione. Ma forse sto andando fuori tema.

Se soffri di vertigini, non salire sul picco della Pannocchia. E nemmeno se ami gli scorci panoramici, visto che il picco della Pannocchia si affaccia sul Merdaio. Il più grande inceneritore d'Europa.
Chi si arrampica fin lassù, ha un unico disegno in testa: essere inghiottito dal merdaio per l'eternità.
Il picco della Pannocchia è così stretto, che ci si può affacciare soltanto uno alla volta.
Detto così, può sembrare facile ma, al cospetto di quel laido strapiombo, ci si impiega un po' a saltar giù. Ecco perché spesso si crea un codazzo di persone in attesa. Alcune fissano il niente, pensando a chissacché. Probabilmente a niente. Altre guardano con impazienza l'orologio, dandosi il tono di chi, oltre a buttarsi di sotto, ha un sacco di altri impegni importanti da sbrigare, prima che faccia sera. Altri ancora discutono animatamente su chi sia arrivato prima, maledicendo il sindaco che, per ingraziarsi l'enorme compagine dell'elettorato stanco di vivere, aveva promesso a suo tempo un tornello elettronico di ultimissima generazione, con tanto di meccanismo di controllo della precedenza a raggi infrarossi.
- Lo sa che cosa accadde a Icaro, l'uomo che voleva volare? - domanda ad ognuno Braciola, sollevando il bastone in maniera istrionicamente profetica.
- E chi ha detto che io voglia volare?! - risponde l'aspirante suicida di turno, seccato per l'intrusione.
- Allora scusi tanto. - ribatte Braciola, sollevando le mani impermalito.

Valentino Scassa attese con vigile freddezza che la feritoia affacciata sul Merdaio fosse finalmente libera. Prese una poderosa rincorsa con le mani sollevate e giunte, per non raschiare le ali posticce sulle pareti di tufo e finalmente spiccò il volo.
Braciola non si accorse di nulla, preso com'era a riflettere sul fatto che forse era giunto il momento di imparare una leggenda alternativa.
Valentino si lasciò inebriare dalla velocità della picchiata per alcuni secondi. L'aria gli gonfiava le labbra ed appiattiva i suoi riccioli biondi. Poi sbatté un paio di volte le braccia e finalmente cabrò verso l'azzurro.
C'era una nuvola a forma di Roberta Stracciotti, quella carina della terza B. Il vento le faceva ondeggiare le mani, in una sorta di applauso rallentato. "Bravo! Bravo!" gli sussurava all'orecchio nuvola Roberta, coi suoi zuccherosi filamenti a vita bassa. Valentino adorava le sottili venuzze che si intravedevano sui suoi fianchetti scoperti. In fondo era dedicato a lei, questo battesimo dell'aria, ed il solo pensiero di quelle venuzze, aveva causato un imprevisto rigonfiamento lungo la calzamaglia, mettendo in discussione l'equilibrio della sua filante struttura aerodinamica e mandandolo pericolosamente in stallo. Valentino avrebbe dovuto dare una smanacciata alla "cloche", cercando di ripiegarla verso destra, dove la custodiva solitamente, ma tenere le ali rigorosamente spalancate, a questo punto era a dir poco fondamentale. Quindi optò per una sapiente picchiata con avvitamento carpiato, grazie alla quale riuscì ad accumulare la spinta per riprendere quota.
Doveva costruire un flap da applicare sulle chiappe, la prossima volta. E il pensiero dei fianchi succulenti di Roberta Stracciotti non avrebbe più rappresentato un problema.
La gioia di Valentino lo stava facendo sgusciare fuori dai collant, quando vide in lontananza i palazzoni del suo quartiere. Diminuì l'altitudine per incassare quel meritato momento di gloria.
Fu nonno Spilorcio a scorgerlo per primo. Si stropicciò gli occhi, pensando all'ennesimo scherzo della cataratta. Più si avvicinava e più quella sagoma diventava famigliare. Attese ancora. Incredulo. La sorpresa era un granchio che gli serrava la gola con le sue chele acuminate. L'anziano inspirò tutto il fiato che poté e finalmente proruppe in un fragoroso e liberatorio - Dove hai preso quelle buste?!?!
Tutte le donne uscirono dalle botteghe.
- Sensazionale!
- Portentoso!
- Ma chi è, un parente dell'arcangelo Gabriele?
- Questa è l'ennesima trovata del supermercato Sgorby per spazzolarci gli ultimi clienti rimasti. - sentenziò Serafina, la formaggiaia.
- E' mio figlio! - singhiozzò commossa la madre di Valentino, Vedova D'Antologia, stringendo al petto la foto della buonanima di suo marito. "Devi promettermi che starai attenta a quell'idiota di tuo figlio" le aveva sussurrato, prima di mandarsi di traverso il quarto ed ultimo salto in padella. Ah, fosse ancora vivo per vederlo adesso!
- Complimenti!
- Chi l'avrebbe mai detto!
- Lo porti da Mike Bongiorno!
- Meglio delle Frecce Tricolori!
- Questo qui vince "Bravo Bravissimo"!
- Ma ce l'ha il permesso della torre di controllo?! - sviperò saputa Costantina la fruttivendola, che soffriva di invidia cronica e in quel periodo aveva sospeso la cura.
Sua sorella Penelope stava succhiando un calippo all'arancia, per tenersi in allenamento.
I suoi amici smisero di giocare al pallone - Vola sull'attico del marchese Musatti - lo incitarono in coro - …che a quest'ora c'è la marchesa che prende il sole tutta nuda!
La notizia che un giovane delle case popolari aveva imparato a volare, rimbalzò nella sala del consiglio e la seduta fu sciolta all'istante. Gli assessori più influenti si arrampicarono sulla torre comunale.
- Se ti iscriverai nella mia corrente, ti regalerò duemila grattini e un autovelox. - gridò l'assessore alla polizia municipale.
- Io ti farò fare un video con gli U2. - blaterò l'assessore alla cultura.
- Se ti iscrivi nella mia corrente, nominerò tuo padre direttore delle terme. - assicurò l'assessore alla sanità.
- Ma mio padre è morto.- rispose Valentino, eseguendo con disinvoltura un perfetto tonneau.
- Lo resuscitiamo con l'aerosol. Che problema c'è?!-
- Come ti chiami ragazzino?- domandò mellifluo il sindaco, imbracato con la fascia tricolore sul parafulmini. - Le vuoi le chiavi della città? - miagolò ancora, facendo tintinnare il grosso mazzo di grimaldelli con cui di notte se ne andava in giro a scassinare casseforti.
Ma Valentino sorrise trionfante. Ormai si sentiva pronto e virò senza indugi verso Spokkìa, il quartiere chic della città.
Roberta Stracciotti finiva di pranzare sul prato di villa Stracciotti, con la sua famiglia. Mamma Stracciotti, seguita dai settenani da giardino, stava per servire loro, con solennità remagesca, una torta di mele alla nonna papera. Di li a poco sarebbero arrivati anche Yoghi e Bubu. Il commendator Stracciotti, amministratore delegato della finanziaria SottSass "il risparmio sicuro", leggeva tranquillamente l'unico numero di Class in suo possesso, quello che lo ritraeva in copertina. Centellinava l'ultimo sorso di vino da un calice alto alcuni metri, che Valentino faticò ad evitare e ondeggiò la testa con quell'aria tipicamente "e tu pensi che, un manager coi controcazzi come me, permetta a sua figlia di frequentare un minchione cacciachimere come te?".
- Non c'è nessuna differenza tra un morto di fame che cammina ed un morto di fame che ha imparato a volare.- sussurrò a denti stretti, voltando pagina.
Ma ciò che fece più male a Valentino, fu il senso di palese imbarazzo che galleggiava negli occhi di Roberta. Cominciò a vergognarsi di quei ridicoli collant che gli stavano spappolando i vasi sanguigni e di quelle ali arrangiate con le buste sgraffignate a suo nonno. In un guizzo di orgoglio professionale, piegò il capo come a tenere un auricolare con la spalla e, eseguendo un altro volteggio, cominciò a recitare compassatamente:
- Signore e signori buongiorno. Sono Valentino Scassa, il comandante di questo volo 4568. A nome di tutto il personale SgorbyAir, desidero darvi il benvenuti a bordo.
- Te l'avevo detto che avremmo dovuto iscriverla dalle suore! - ammonì rivolto a sua moglie il dottor Stracciotti, spezzando il collo a Cucciolo e Dotto, ma senza perdere le staffe.
- Il nostro arrivo all'aeroporto Jfk di New York è previsto alle ore 16 locali. Le condizioni metereologiche…
- Valentino! Dove hai preso quelle buste?! - continuava intanto a gridare suo nonno, dopo aver rapinato un vecchio suv a due volontari della protezione civile ed essersi arrampicato su un'altura, dalla quale non avrebbe più perduto di vista suo nipote.
- …fra breve vi verrà servito un piccolo snack. Buon viaggio e grazie per aver scelto SgorbyAir.- concluse Valentino, allontanandosi da Spokkìa ed offrendo ai passeggeri uno scanzonato film di Natale con Boldi e De Sica, per dissimulare la costernazione.
Anni e anni di studio ed abnegazione. Credeva di aver voglia di volare. Chi altri c'era mai riuscito? Nemmeno il leggendario Icaro. Ma ora tutto sembrava inutile, senza l'unica cosa che desiderava veramente: Roberta Stracciotti. Quella carina della terza B. Pelle candida percorsa da sottili e sensuali venature bluastre. Chissà chi le avrebbe morse, leccate, accarezzate?
Lui no, ci si poteva scommettere.
Puntò verso il blu orizzontale. L'oblio del mare, per quelle inutili suppellettili. E per lasciarsi alle spalle la tristezza di un sorriso negato.
- Riportami subito quelle buste, che poi stasera facciamo i conti! - squarciagolava nonno Spilo in lontananza. Ma oramai Valentino non lo sentiva più.
Planò a lungo sul pelo dell'acqua. Aspirò il salmastro e prese in faccia gli spruzzi delle verdesche che saltavano allegre fra le onde, al riparo da qualsiasi rischio di estinzione.
Poco prima di ammarare, vide un vecchio sollevarsi in piedi su una malconcia bagnarola da pediluvio:
- Lo sa che cosa accadde a Figaro, il barbiere che voleva nuotare?
- E chi ha detto che io voglia nuotare?! - rispose Valentino, seccato per l'intrusione.
- Allora scusi tanto. - ribatté Braciola, sollevando le mani impermalito.


2 Filippo Pirro

LO SCULTORE DELLE NUVOLE

(Filippo Pirro)


Dopo una gioventù intensamente vissuta tra studi, letture e ricerche, e una maturità operosa divisa tra impegno educativo nella scuola e ricerca assidua di nuove tecniche in disegno e pittura, nonno Bert aveva coronato, col sostegno di una decorosa pensione, il suo sogno di dedicarsi completamente alla scultura e all'intaglio del legno nella dolcezza del paesaggio dei monti specchiantisi nel Lago della Vecchia.
Aveva sporadicamente, in margine ai suoi lavori di grafica e pittura, scolpito e intagliato di tutto - tufi, pietre pomici e persino ossi di seppia e radici di pini relitti - quelle volte che gli capitava di andare al mare durante le ferie estive. Giornate memorabili, quelle, con le sue corse mattutine sulla battigia a raccogliere quello che il mare gli regalava, soprattutto dopo una notte di risacca. Il mare era il suo mecenate, sempre prodigo nel donargli radiche contorte e tronchi filigranati di cristalli di sale e incisi ad acquaforte dalla salsedine e che le onde, chissà da dove, trasportavano e riversavano sull'arenile nella danza furente dei frangenti. Il mare era il maestro che gli dettava il tema delle sue sculture. Bastava semplicemente leggere quello che già suggerivano venature o concrezioni, volute o distorsioni e fori e spaccature di rami scerpati, per ricavarne maschere o amuleti, sculture a tutto tondo o grovigli e intrecci topologici.
Era la sua passione segreta, nota solo al suo cane Xilé e a pochi amici del cuore.

Aveva così deciso di comprarsi una baita sull'alpe nei pressi del lago della vecchia, così chiamato per via di una leggenda che raccontava di una sposa invecchiata a chiamare il suo sposo caduto ed inghiottito nelle acque cristalline del lago, magico specchio del Bric du midi.
Puntuale, ogni mattina, si perdeva nelle abetaie esalanti balsamici aromi di resine e dolcezze di mirtilli e traforate dai primi raggi di sole. Il campanellino al collo di Xilè lo avvertiva subito di qualche felice ritrovamento di ciocchi e di ceppaie vellutate di muschi. Già, perché il suo cane non era di tartufi ma cercatore di legni, come il suo nome greco suggeriva. Cucciolo di pochi giorni, si era infatti salvato dalla fame di cani killer di un pastore proprio sotto una catasta di fascine di legna così preziose durante il lungo inverno. E Bert lo aveva così scovato tremante, al suo rientro dal paese per la consueta escursione settimanale di approviggionamento viveri. Di tutta la cucciolata, uccisa anche la madre Buia, solo lui si era salvato nel fitto delle fascine. E Bert attribuiva a questo drammatico imprinting legnatico il fiuto straordinario di Xilè specializzato nel trovare e riportare quanto di xylon- legnoso- offriva il bosco.
Puntuale, dunque, ogni mattina Xilé gli deponeva sbavati, felicemente scodinzolando, il tronchetto più dolce di tiglio, o la radica lucida di un acero o di un cirmolo. E così tutti e due se ne ritornavano felici con la carriola piena dei tesori del bosco. Bert, dopo un'attenta revisione e pulitura da archeologo, posava la materia grezza, che la natura e il suo cane gli avevano offerto, con scrupolosa attenzione sul suo tavolo da lavoro. Ne studiava le forme e la consistenza, una volta scortecciato ogni pezzo, valutando innanzitutto il lavoro di consolidamento alla devastazione di tarli e muffe, ne leggeva nodi e venature, ramificazioni e contorsioni, per poi tuffarsi nella fatica di sgorbie e ronchetti, di trapano e scalpelli, di smeriglio e punteruoli, seguendo il disegno che le nervature suggerivano.
Erano nati così, giorno dopo giorno, scoiattoli di noce, volpi di castagno, ricci e donnole e gufi di acero e di pino, e camosci di abeti e caprioli di radiche di cipresso. Un bestiario odoroso di essenze, lisciato con cocci di bottiglia, lucidato e tirato a specchio con pura cera vergine di api. Uno zoo di legno schierato alle pareti della baita limpida di calce, come trofei di caccia di un cacciatore che cacciava solo con gli occhi, e che tutta la vita della montagna schizzava e annotava, più che nel suo taccuino di scorza di betulla, nella stanza del cuore e della memoria.

Già, la sua memoria! Che spesso sorprendeva lui stesso quando, come fosse ieri, si rivedeva piccolo madonnaro a far scattare il wow di meraviglia delle donne nerovestite della sua strada di bambino davanti ai suoi santini tratteggiati a carbonella, sugli intonaci appena imbiancati di calce e che ai suoi occhi erano tele ed album di disegno regalati.
E poi il primo Pinocchio in fuga dai gendarmi inviato dalla sua maestra ad un concorso per le scuole elementari, e pecorelle e pastorelli e bue ed asinello in creta rossa, per il presepe preparato con sua madre, vera maga nel creare dal nulla di stracci e carta di giornali, e muschi innevati di farina, il mondo di Betlemme.
Questo il suo primo apprendistato. Poi c'era stata la bottega di Gigi a rivelargli i segreti delle incisioni ad acquaforte ed acquatinta, con il sale e le varie morsure, con acidi e misture alchemiche, e la bulinatura a punta secca, e infine la magia del fuoco a trasformare una creta sorda e polverosa in terracotta calda o in lucida maiolica. Ultime esperienze, poi, le fusioni a cera persa, quasi a rivivere le emozioni della fusione del Perseo di Cellini, in quei momenti magici rapito dallo splendore infuocato del bronzo liquido a eternare un effimero calco di gesso.
Tutto questo aveva provato, sperimentato, soddisfatto ma mai pago. Ne erano prova, in vetrinette impolverate o su mensole e alzate o in nicchiette, decine e decine di sbalzi e intagli, di sculture e bozzetti modellati in cera, in gesso, in legno e piccoli bronzi.

Un ultimo ricciolo alla base delle splendide corna di uno stambecco di robusto rovere e la sua baita, anche oggi, si sarebbe arricchita di un altro piccolo capolavoro.
Per la verità Bert non pronunciava mai la parola capolavoro. Artista, sì, ma conscio dei suoi limiti, soddisfatto appena terminato un suo pezzo, eternamente insoddisfatto il giorno dopo.
Troppo fisse riteneva le sue sculture, attimi di vita eternizzati in pose di morte, vita troncata e fissata in fotogrammi di requiem. Questa sensazione l'aveva avvertita soprattutto nella suo periodo green, in cui dipingeva "nature morte". Già d'allora si era posto il problema di quella definizione: perché chiamarla natura morta se l'intento dell'artista era invece quello di trasportare sulla tela la bellezza, i colori, gli odori, i profumi della vita? Un controsenso! E la conclusione non poteva non dare ragione al vecchio Eraclito. Sì, Bert ne era convinto: aveva ragione l'antico saggio che non si può fermare la vita senza ucciderla. Coglierla con un tocco di pennello, o con uno scatto fotografico, o con un colpo di scalpello o di bulino, significava ucciderla. Tutto scorre e niente è uguale a se stesso nell'attimo seguente.
Se voleva veramente essere artista, da tempo l'aveva capito e lo covava segretamente nel cuore, doveva dipingere sull'acqua e scolpire le nuvole col vento.

Le nuvole. Quei castelli fatati che fluttuavano ad ogni istante e diventavano fantasmi e cavalli scalpitanti ed amazzoni all'assalto e velieri di olandesi volanti, quando si arrampicava con Xilé e le sue due capre fin sotto la radura ai piedi del Bric du midi, disteso ad occhi in su sul tappeto erboso profumato di trifoglio e dorato di elicrisio della riva del lago della vecchia !
Il vento, pensava, il vento era l'artista! Lui sì con l'A maiuscola, il solo capace di plasmare e modellare senza sosta le splendide bianchissime torri dei cumulinembi, che sfioccava e tingeva di vermiglio al tramonto gli strati e gli altocumuli in merletti argentati dalla luna o alabastrati in porpore d'oro dall'aurora.
Ora era chiaro nella mente, ora sapeva il suo ultimo traguardo, il suo Nobel e il suo Oscar, la sua vera Biennale di Venezia: gareggiare col vento a scolpire le nuvole. Ed ogni giorno studiava le correnti ascensionali, la direzione e la forza del vento, sperando che qualche nuvola calasse come nebbia sulla baita. Ed è in un mattino burrascoso di ottobre che il miracolo si avvera: una splendida nube si è posata a mezza altezza infilzandosi sul pinnacolo del Bric du Midi.
Era il giorno tanto atteso da sempre. Era il suo giorno. Non sapeva come avrebbe fatto, ma sapeva che quel giorno, danzando e volteggiando con le mani e le gambe, col capo e con tutte le sue membra, soffiando e insufflando, danzando la pizzica e la samba, avrebbe scolpito quella nuvola.
Bert salutò le sue capre e quasi spinto da Xilè più ansimante e scodinzolante del solito, prese il suo bastone da montagna e s'inerpicò per il sentiero che conosceva come le sue capre che portava al lago della vecchia e giunse proprio sotto la scarpata scoscesa del Bric.
La nuvola era lì, meravigliosa, sogno sospeso di panna montata, dolcissima matassa di zucchero filato, marmo di Carrara cremoso e burroso. S'arrampicava con la forza dei vent'anni, lui stesso ignorando il perché di quell'energia nelle gambe di anziano rinverdito, ma cosciente che la fonte di quell'energia ascensionale era dovuta all'amore e all'ardore che sa infondere il demone dell'arte.
Ma all'improvviso un vento rapinoso sbiscia dal ghiacciaio del versante orientale dell'alpe, e ammulina gelidi lapilli di nevischio che addensa in vorticosi vapori. Scatta un lampo accecante tra la nuvola di panna infilzata al pinnacolo del Bric e la massa addensata e nera della nuvolaglia improvvisa. E di schianto un fragore di tuono e ancora fuciliera di saette e rimbombi e fischi ed ululati di bufera, e neve e grandine e sinistri sibili di glaciale tramontana invidiosa di quel vecchio solitario salito a contenderle il primato di artista.
Ed è un violento colpo di frusta che distacca Bert dalla parete del Bric e come foglia di novembre o anima del secondo cerchio dantesco sbatacchia, invortica ed ascende dentro la nuvola del sogno.

Lo spettacolo di una nuvola danzante che ad ogni istante muore e si rinnova gonfiandosi e stirandosi, sfioccandosi , di un magma che si distende poi si arricciola ed ora è una pantera, ora ruggente leone rampante, ora gattino e bimbo in corsa ad abbracciar la madre, o capra e poi agnello e poi armata di cavalieri erranti ed ippogrifi…: è questo che rapiti, occhi puntati al Bric, i valligiani assistono incantati. E pensano a quel Bert sull'alpe presso il lago della vecchia, e alla sua fortuna di vedere da vicino quello show meraviglioso, lui col suo cane proprio lì sotto il pinnacolo del Bric du midi.


Poi la bufera allenta la sua presa e squarci e varchi si apre il sole e torna l'azzurro a rispecchiarsi sul lago della vecchia. Geloso in alto il vento sperde in gregge di cirri in fuga la nuvola. Ultimo rombo e brontolio di tuono e poi tutto sull'alpe torna in quiete. Solo nuota nell'aria l'ombra senza peso di corpo, a braccia aperte come un deltaplano. Come samara d'acero leggera, plana l'ombra, che un'ultima ventata deposita nell'urna di un crepaccio soffice di neve immacolata.
E dicono che, insieme alla sposa in cerca del suo sposo, ancora non si arrende sull'alpe, in cerca del padrone salito sul pinnacolo del Bric per scolpire le nuvole, l'ombra di un cane e l'eco di un guaire pietoso, sulle acque cristalline del lago della vecchia.


3 Federico Bezzi

Il sordomuto, il ciecomuto, il sordocieco e il loro storpio cane segugio .

(Federico Bezzi)


un sordomuto con la vista; un ciecomuto con l'udito; un sordocieco con la parola - insieme essi vagano per il mondo come una cosa sola, legati come tre fratelli dalle proprie imperfezioni: arrancano, direbbe qualcuno, come terzi o quarti di uomini inutili persino a se stessi, contratti come nervi difettosi; nelle ombre mezze scucite ai piedi l'agonia dei tre è più evidente: le ombre tremano e tremolano, sono fiammelle nere distese nel pomeriggio boreale; e nonostante la ferrea unità del terzetto, la paura nei confronti del mondo è per loro comunque triplice; essi si portano appresso legato perennemente ad un guinzaglio un cane bastardo che segue il gruppo, cieco, sordo, senza la lingua e senza la coda, dotato però di un fiuto potentissimo da segugio -
il sordomuto, unico a vedere, è chiaramente colui che conduce l'intera carovana: egli scruta il mondo adeguando la piega delle proprie palpebre alla linea degli orizzonti, ha occhi scuri che tutti dicono tristissimi, occhi come buchi neri in cui nulla si riflette ma dove tutto affonda, si perde; il sordomuto tiene i compagni sul sentiero, e fa loro anche da balia: mette tenda, accende il fuoco, cucina, presso qualche corso d'acqua lava i lerci compagni, nutre il pallido cane, raccoglie le elemosine, tiene d'occhio bagaglio e fagotto; il sordomuto, dei tre, è senza dubbio il più indipendente, con il mondo potrebbe anche sbrigarsela da sé, ma: egli ha paura di ciò che non sente; per questo motivo il sordomuto non può assolutamente immaginare di separarsi dal ciecomuto suo compagno, dotato dell'udito: quest'ultimo infatti, ad ogni rumore molesto, è solito mettersi a saltare sul posto, fa linguacce e strane facce, segnali che il sordomuto può ogni volta scorgere su di lui come allerta -
il ciecomuto è un uomo piccolo e spigoloso: grazie all'udito, egli ode in lontananza la musica sTCiabattata dalle sagre e dalle fiere, e mette il terzetto sempre su quella via: perché è noto che dove c'è gente in festa, là si troveranno anche del denaro e della crusca; di suo il ciecomuto è poi un essere particolarmente sensibile, che si spaventa con facilità, si muove appallottolato come una preda, ogni tanto aguzza l'orecchio, il suo stanco orecchio che è appoggiato all'orifizio da cui l'obeso vento soffia; il ciecomuto ode le campane che scandiscono il giorno, lo scoppio degli acquazzoni improvvisi, le valanghe, le frane dai monti, le sirene della polizia, gli allarmi della contraerea, gli insulti e le malelingue dei paesani al passaggio tetro del loro disgraziato terzetto, di villaggio in villaggio; ma, soprattutto, il ciecomuto può udire ciò che il compagno sordocieco, unico dotato della parola, di tanto in tanto blatera: la Parola Profetica -
il sordocieco ha una lingua gonfia, crepata, che quando mostra nelle smorfie fa gridare: uuuah! alle intere folli folle; il suo linguaggio è oscuro ma densissimo, quando il sordocieco parla la Parola la si palpa nell'aria, come un veleno: stordisce tutti coloro che hanno orecchie per sentire, compreso il compagno ciecomuto, che però vive di quello stordimento come di una droga, dipendendo dalla voce improvvisata del compare: per questo motivo il ciecomuto non abbandonerebbe mai e poi mai il sordocieco; così, il sordocieco esprime forze: e dalla sua bocca le forze forzano le idee: e con le idee gli idiomi; egli dice: "alliddio pa" - 'pallido addio', ma anche 'palla di Dio', '(p)Allah di Dio', 'pallàdio', 'Dio è in palio', etc. - dice: "rescacra ti" - 'tresca sacra', ma anche 'scaricate!', 'ira a carati', 'esecrata esca', 'tre scarsi re scartati', etc. - dice: 'stamaortua re' - 'statua mortuaria', ma anche 'amara ruota', 'resta Morte!', 'amore d'aorta', 'remo ora e storto', etc. - quando il sordocieco parla, sulle piazze e sulle strade, alcuni tappano le orecchie ai propri figli, altri accelerano il passo per non sentire, altri ancora lasciano un'elemosina ai tre storpi in segno di scaramanzia, senza mai alzare gli occhi dalle proprie mani; e c'è anche chi, talvolta, paga per poter porgere una domanda al sordocieco, e avere una risposta delle sue: chi chiede della Vita, chi della Morte, chi domanda della semina, chi del petrolio, chi domanda Fortuna, chi, sottovoce, avvicinandosi all'orecchio inutile del sordocieco, gli chiede: "chi sei tu?" - "ESCARGò" risponde il sordocieco ogni volta, ritirandosi come una lumaca ferita: A SCAR GOT;






































































































































































































































































































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